Cronache Marziane da Pitti Uomo 2014

La moda è uno dei pochi settori dell’economia italiana ancora in salute, per cui ben vengano per il paese grandi manifestazioni internazionali come Pitti Uomo di Firenze, che tra l’altro quest’anno pare in grande fermento. Ci sono stato per la prima volta, oggi, con il risultato di incontrare un’umanità completamente inattesa, variegatissima, lontanissima da me (e proprio per questo affascinante), che provo ad affrescare per brevi impressioni.

DRESS CODE

Andare al Maracanà della moda vestito come tutti i giorni poteva sembrare irrispettoso. Quindi sono arrivato a Palazzo “normale”, ma con alcuni dettagli bizzarri e personalissimi: un paio di bretelle a pois blu e rosse rubate ad Antonio Di Bella, una sciarpona bianca di Telethon raffinatissima, camicia chiusa fino all’ultimo bottone come da copione, mutande rosse da capodanno che non si vedevano ma facevano tanto esotico. Anche se sono glabro mi sono fatto crescere la barba, il vero passaporto per l’uomo del 2014, che qui è “guerriero ma pacifico” (tipo Gino Strada?). Non ho dimenticato di risvoltare le braghe, un po’ sopra il malleolo, un po’ sotto il ginocchio (ma avendo in casa una zuava, va benissimo anche lei).

Impressioni: incontro gente scafandrata, con il fez, principidiGalles totali, scozzesi, abbinati con apparente ma elegantissima daltonia, eschimesi, kellerine, quasi reduci dell’Armata Rossa, e osservando la mia normalità –tutti- storcono il naso. Qui, a Pitti Uomo, il bizzarro sono io, siamo noi.

COORDINATE

Pitti Uomo è tipo un grande magazzino, con tutti gli stand dei brand in fila ma senza i camerini e le signore che ti fanno provare il caffè con la miscela arabica. Per fare il grosso ho provato a chiedere se c’erano i saldi.  Mi ha risposto un gruppo di stilisti neri e barbuti di Harlem che pensando ad una provocazione erano disponibili a fustigarmi sul posto a colpi di biografie di Malcolm X: mi sono salvato in tempo. Per il resto, l’umanità degli espositori e dei loro vestiti è talmente varia da potersi agilmente ricondurre a quattro punti cardinali: presepe vivente, chiringuito di Ibiza, personaggi minori di “Alice nel paese delle meraviglie”, giardini di Oxford. Insomma, c’è posto per tutti (quasi) e lo spettacolo –più che dentro- è intorno agli stand.

FRASARIO FONDAMENTALE

  • “Adddorrrooooo…” (apprezzamento massimo).
  • “Ci siamo visti a Milano?” (utilissima per salutare uno sconosciuto)
  • “Il dettaglio è anima” (non l’anima, solo anima).
  • “Non conta l’età, non esiste il giovane e il vecchio. Conta come sei: in, o out” (giudizi universali).

CAPI IMPERDIBILI

  • Il giaccone di pelle borchiatissimo. Cosi tanto da sembrare una armatura. Sconsigliatissimo per il metal detector.
  • I calzini da ciclista che nella notte si illumimano a Led. Perfetti per non farsi stirare e tamarri il giusto, ideali per aderire alla nostra operazione “M’Illumino di Meno”.
  • Felini: il ghepardo scende, il il leopardo tiene, risale il giaguaro.
  • Sta tornando la coppola. Non sapevo fosse andata via, ma sta tornando.
  • Lo smoking tutato. O la tuta smokingata. Ideale per ubriacarsi ad un ricevimento e scappare velocissimi prima di essere acchiappati dal padrone di casa, sudando il giusto.

PAUSA PRANZO

Trattoria rinomatissima a pochi passi dalla Fortezza da Basso, dove Pitti Uomo diventa comunità. Giuro: ho visto un anziano pellettiere fiorentino parlottare con un giornalista giapponese. Il pellettiere spiegava -in vernacolo stretto- la ricetta del peposo all’Imprunetina, incomprensibile già dalle parti di Coverciano (una cedrata pagata a chi riesce a descriverla, nella sezione commenti, senza cercarla su Google). Il collega nipponico si è fidato e ordinato. Chissà se ha gradito.

PACCHI

Il mio contatto per raccontare Pitti Uomo –possibilmente con ironia e distacco- era il signor Luca, fantastico stilista bresciano esperto in cravatte e pochette, che a differenza di altri imprenditori della zona è riuscito a vendere a Bush Junior vestiti e non armi. Non è potuto venire in onda e mi ha passato il contatto di un suo amico di Torino, che in una sorta di larga intesa oltreoceanica, produce e vende i pantaloni preferiti da Obama. Non è potuto venire nemmeno lui. Alla fine ho intervistato una ragazza di origine africane e accento di Lambrate che somiglia vagamente a Michelle Obama. Son soddisfazioni.

IL MUST DEL 2014

Ho fatto un corso accelerato per scrivere un pezzo di moda veloce e ben fatto, che riassumesse la giornata trascorsa a Firenze. Forse Rosanna Cancellieri sarebbe fiera di me, forse no.

Eccolo. Tema: “l’uomo di Pitti del 2014”.

Svolgimento.

“E’ l’inverno due-zero-uno-quattro. L’inverno dell’uomo che vive alla giornata, l’uomo indipendente e coraggioso. Ama il camouflage, per mimetizzarsi con la flora e la fauna urbana. La barba incolta o i possenti mustacchi non conoscono nazione, sono il passpartout dell’uomo della metà degli anni Dieci: belle epoque. La radiografia moderna parte dal dettaglio: il calzino pastellato è il tornasole dello stile, colorato, esibito, sfrontato. Insieme a lui torna il cipollotto –inteso come orologio-, il vero vettore tra gli spasmi della modernità e il recupero di un tempo antico. Lo sguardo è quello romantico di un lord, il fiocchetto orna il collo e si posa sul gilet con punti fantasia per restare al caldo, ma con classe. E quando si fa sera, l’uomo coraggioso due-zero-uno-quattro non risponde alla provocazione metropolitana. Osserva il guardaroba degno de Il Grande Gatsby, affronta un brodino, la replica di CSI Miami e si fà trapunta del suo stesso letto. Potere del camuoflage, il tatuaggio dell’anima.” Adddooooro.

CONCLUSIONI

Un pensiero commosso a Giorgio La Pira.

Start Up: Israele batte Italia 7-1. Linea allo studio.

Continuo ad avventurarmi in un terreno minato, parlando a tentoni di economia su un sito frequentato dai più grandi esperti della materia: insomma, se sbaglio, mi correggerete, anche perché il racconto di alcuni dati colpisce e sciocca. 
Festival che vai, spread che trovi.

Dopo aver raccontato la differenza abissale che si applica tra Italia e Germania intorno a cultura e fondi europei (qui, nel mio incontro con Philippe Daverio a Bolzano), mi imbatto in un altro differenziale da record.

Nel chiostro di una bellissima chiesa del centro di Pisa, ho pranzato con un signore di Padova, sulla cinquantina, che lavora prevalentemente a Tel Aviv. Eravamo tutti e due in città per l’edizione 2013 di Internet Festival, che ruota intorno alla rete e a molte idee ed imprese nuove che passano da lì. Il discorso è caduto sulle start-up. Questo signore, un tempo, si sarebbe potuto definire finanziatore o pioniere. In tempi globalizzati è giusto chiamarlo business angel. Tradotto: va in una sala con altri angeli e ascolta un ragazzo con una bella idea ma senza una lira (start-upper) che fa il suo pitch (breve discorso di presentazione, che dev’essere di impatto); se il giovanotto buca, il business angel può arrivare ad investire fino a 200mila euro, in cambio di una quota di partecipazione. E qui entra in gioco lo Stato, il Ministero dello Sviluppo Economico. Che in Israele è pronto a mettere fino a sette volte il capitale investito dall’angelo (che diventa anche watch dog, cane da guardia dell’investimento): cosi si sostiene l’economia delle giovani imprese e nel giro di qualche anno si rientra nell’investimento. In Italia, invece, il rilancio pubblico può arrivare, al massimo, alla stessa cifra investita dall’angelo. Insomma: Israele – Italia 7-1.Se questi dati sono corretti (il vino era ottimo ma ci siamo contenuti) mi sembra uno spread altissimo, irragionevole. Un altro dato su cui lavorare, per avviare la fase 2.0 di I-Letta e del governo delle larghe intese. Al caffè, per darmi una botta di vita, sono tornato dall’angelo veneto e mi sono fatto regalare un’altra massima: “Mica solo per le start-up. ma anche in fatto di vita notturna” strizzatina d’occhio “Tel Aviv è ormai meglio di Manhattan”. Chapeau. 

Ps. All’Internet Festival ho visto le stampanti 3D che potrebbero cancellare un pezzo d’industria tradizionale e conosciuto meglio il grafene, il materiale più flessibile e sicuro del mondo, presto su tutti i nostri cellulari e tablet (cosi se litighi con la fidanzata al telefono e lo lanci al muro, lo smartphone rimbalza e non si fa nulla). Però la cosa più divertente è la robotica applicata ai robottini che fanno sumo. Una cosa emozionante, bellissima, qui 

Zero soldi ma un piccolo (grande) film sulla legalità

Se stai passando la linea d’ombra ti senti in diritto di fare il grosso con gli amici più piccoli. E’ nelle cose, ed è un pensiero ricorrente mentre pendono dalle tue labbra, e tu, con un pizzico di invidia, li guardi parlarsi, organizzare i loro vent’anni, prendere il mondo in mano, sentirsi invulnerabili e un po’ incoscienti, direi semplicemente felici. Il primo istinto è che vorresti riavere indietro i tuoi, di vent’anni, ma non si può. Allora ti consola che per qualcuno di loro sei un fratello maggiore, un riferimento e anche un po’ rifornimento –di spunti, di racconti, di vissuto-, e finisci per far pace, anzi quasi per godere, della tua clessidra che ha consumato un po’ più di sabbia. Perché ogni tanto, quando sei fortunato, i ruoli si possono ribaltare: l’ormai ex ragazzo prende appunti, i fratellini salgono in cattedra e insegnano delle cose. A me è successo a San Damiano d’Asti, un borgo delizioso che cucina tonnellate di fritto misto alla piemontese e festival innovativi (http://www.fuoriluogofestival.com), ha una biblioteca attivissima e un gruppo di ventenni brillanti e dolcissimi, apparentemente scapestrati ma incredibilmente sul pezzo. Molti di loro si sono conosciuti agli scout (si sono dati un nome pieno di romanticismo, Clan Livingston) e insieme hanno girato l’Italia, che dalla astigiana ricca e un po’ snob spesso sembra lontanissima. Un paio d’anni fa sono capitati in provincia di Salerno, ospiti di un campo di lavoro di Libera, l’associazione di Don Ciotti che combatte le mafie sui territori, innescando meccanismi virtuosi sui terreni confiscati. Poteva finire in una vacanza come le altre: foto, scherzi e racconti da riportare a casa e condividere con gli amici, in quella sfilza classica di aneddoti che ogni viaggio di gruppo offre sempre (di questo, ne sono sicuro, sono conservate minuziosamente anche tutte le ricevute). E invece dal quel viaggio è nato un piccolo miracolo. I ragazzi (ne cito tre: Simone Cioè, nemmeno diciottenne, funambolo della regia e smanettone simpaticissimo; Lorenzo Gilardetti, aspirante giornalista e penna brillante, destinato ad un grande esame di maturità; Simone Montrucchio, che studia ingegneria a Torino e a 21 anni sembra la guida saggia e disponibile del gruppo) si sono innamorati della storia di Alberto Varone, piccolo imprenditore ucciso dalla camorra nel 1991, e hanno deciso di raccontarla in un cortrometraggio. Si chiama Fiori dal Cemento e sarà presentato sabato 12 Ottobre (Cineteatro Cristallo di San Damiano d’Asti, ore 21). Un gioellino (qui, il trailer) che ha acceso un meccanismo virtuoso: mezzo paese è stato mobilitato nelle riprese, ha offerto case e automobili, costumi e trucco, un cantautore emergente –Luca Fiore- ha curato la colonna sonora, i ragazzi e le ragazze hanno scritto e interpretato il film e partecipato attivamente al montaggio, rigorosamente home-made. Scheda tecnica: un paio di macchine fotografiche, qualche obiettivo, un microfono potente, un saldo tra entusiasmo e soldi investiti (facile, zero) nettamente in attivo. Non è solo una bella storia destinata –quasi esclusivamente, ahimè- ai quotidiani locali. E’ un progetto produttivo credibile e innovativo, basato su un concept sempreverde che spesso sembra finito ai margini delle priorità cine-radio-televisive: la passione per le buone idee, e lo slancio per metterle in pratica. Succede spesso nei posti dove di budget e di business plan non si parla. Al massimo, si tratta di fare una colletta: è questa la piccola –grande- lezione dei miei giovani amici del Clan Livingston. 

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Fiori dal Cemento (Facebook) – https://www.facebook.com/fioridalcemento

 

Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/blogs/italia-2014/zero-soldi-ma-un-piccolo-grande-film-la-legalita#ixzz2hFtiwbhF

Seconde generazioni, identità e Lampedusa

Selam è un bel ristorante etiope di Milano, nel cuore di Porta Venezia. Nella sala principale, tra i tavolini bassi e i vassoi decorati per servire lo zighinì, ieri sera eravamo sei ragazzi: tutti italiani, alcuni anche un po’ etiopi, altri anche un po’ eritrei. Il giorno dopo la tragedia di Lampedusa, questi ragazzi di seconda generazione hanno sentito l’esigenza di convocarsi e pensare ad una manifestazione per ricordare le vittime degli sbarchi, e per non lasciare soli i connazionali sopravvissuti alla tragedua. Nelle stesse ore, alcuni tra i loro genitori, arrivati in città dagli anni Settanta per sfuggire alla guerriglia, hanno deciso di stare insieme per un momento di preghiera, o semplicemente di commento. Impossibile non immaginare che la memoria abbia fatto capolino molti anni prima, ai loro viaggi avventurosi, al carico di speranze verso il paese che poteva accoglierli dopo aver colonizzato cultura e terra dei padri. Nel 2013, questo scarto generazionale offre un punto di vista nuovo sulla tragedia di Lampedusa. Questi ragazzi hanno un’identità divisa: hanno una forte cadenza milanese ma parlano benissimo tigrino, che usano soprattutto in famiglia, come lingua dei sentimenti. Sono perfettamente integrati in Italia ma qui il colore della pelle, per qualcuno, può ancora rappresentare una differenza. E cosi si trovano a raccontare Lampedusa come un problema globale, non solo italiano o africano. “Lampedusa è il primo pezzo di mondo migliore che un migrante può incontrare: etiope, eritreo, libico, di qualunque paese africano, siriano” mi dice Iosep, 28 anni, intercalare milanesissimo appoggiato su una cresta da calciatore e un mestiere da fabbro. “L’Italia non è più la meta privilegiata di arrivo, spesso è solo la porta d’Europa, poi si cerca di andare molto più a nord”. “Per questo abbiamo pensato di convocare tutte le seconde generazioni, senza distinzione” racconta Agazit, 28 anni, che lavora nella moda e si sta occupando dell’organizzazione della manifestazione “senza distinzioni di nazionalità d’origine. La questione è globale, riguarda soprattutto noi come italiani, che per primi dovremmo immaginare un cambiamento, che parta da qui”. A me vengono in mente, per esempio, la cancellazione del reato di immigrazione, e anche una piccola rivoluzionaria riforma della giustizia che possa consentire –in base ad un semplice principio di umanità- che chi interviene con la propria barca per soccorrere i migranti non possa essere accusato di complicità con gli scafisti. Succede anche questo, nel nostro codice penale, altro che ius soli. La parola “dittatura”, alla voce “ragioni per scappare”, resta quasi sullo sfondo. I ragazzi ci tengono molto a dare un’idea costruttiva, propositiva, globale della manifestazione. Il rischio -mi pare- sarebbe quello di confinare la questione a scacchieri geo-politici lontani. Qui di Eritrea ed Etiopia si conosce pochissimo e –spente le luci su Lampedusa- c’è il rischio che di quei paesi si torni a parlare solo alla prossima tragedia. La posta in gioco, insomma, è decisamente più ampia e riguarda tutto il tema dell’immigrazione, del diritto alla ricerca di una vita migliore, della sconfitta a miseria, guerre e ingiustizie. La manifestazione sarà settimana ventura; forse non il 12 Ottobre, come si era immaginato, per evitare sovrapposizioni con le iniziative in difesa della costituzione. Sarà interessante vedere chi scenderà in piazza; se oltre a questi ragazzi, e agli italiani più sensibili al tema, ci saranno anche altri migranti, non necessariamente africani, arrivati non solo in maniera avventurosa. Mi sembra un bel pensiero, anche perché Selam,che è il nome del ristorante ma anche di una bella idea, in tigrino continua a voler dire “pace”.

Ps. Daniel, il giovane proprietario del ristorante, tiene a precisare che oltre allo zighinì ci sono molte altre ricette della tradizione etiope ed eritrea. Accenna in particolare ad un altro piatto a base di carne, che viene servita cruda o appena scottata, con verdure piccanti e accompagnata da un burro molto profumato che arriva direttamente dall’Africa. Gradiente di speziatura assoluto. Non ho avuto la prontezza di segnarmi il nome sul taccuino, le mani erano completamente impregnate di zighinì e il piatto (il secondo) era ancora mezzo pieno. Vi faccio sapere la prossima volta.

 

Rhome for denCity, le Olimpiadi a costo zero

C’è un’Olimpiade speciale, un po’ perché si tiene ogni due anni, un po’ perché nel 2014 si svolgerà a Versailles, che forse va bene solo per il dressage ma rimane pur sempre un bel set. Si chiama Solar Decathlon e partecipano i migliori progetti di architettura sostenibile che arrivano da 16 paesi distribuiti su 3 continenti. Il progetto italiano, coordinato da Chiara Tonelli e con il contributo dei suoi studenti a Roma 3, si chiama Rhome for denCity. Una casa fatta su misura per la Capitale: nessuna emissione, produce energia (dai pavimenti, dai pannelli fotovoltaici), mette al centro risparmio e riutilizzo dell’acqua e “libera dall’abusivismo le aree ecologiche preesistenti” dice Tonelli “come l’acquedotto romano, a favore di una nuova aggregazione di moduli abitativi ad energia rinnovabile”. Tra pochi mesi il via ai lavori in Alto Adige, poi la casa viaggierà su treno verso Versailles e nel giro di una settimana verrà montata e inaugurata per le Olimpiadi. All’ultima edizione (Madrid 2012) lo stesso gruppo di lavoro realizzò Med in Italy, aggiudicandosi la medaglia di bronzo. Nel giorno in cui Roma potrebbe lasciare a Milano oneri ed onori della candidatura italiana per le Olimpiadi del 2024 (troppo alto il debito per la Capitale, troppi rischi), commuove il business plan di questi giovani architetti romani: zero fondi pubblici, un pugno di sponsor solidi e visionari, molto entusiasmo. I colleghi tedeschi, spagnoli e francesi -quelli che all’ultimo giro hanno vinto le Olimpiadi- hanno invece le spalle coperte dallo stato e da grandi industrie di settore. Dove non arriva il capitale economico, tocca confidare in quello umano. Che in Italia -spesso-, fa ancora la differenza.  

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Val Pellice, distretto di Shangai

(foto di Simone Perolari e Rino Fassio)

Oggi è il giorno della festa nazionale più grande del mondo: è il sessantaquattresimo compleanno della Repubblica Popolare Cinese. A Shangai e Pechino sono previste manifestazioni di piazza: fuochi d’artificio, bandierine, dirette tv. In Italia (dove i primissimi migranti cinesi arrivarono proprio perché anti-maoisti) è una festa poco sentita, percepita come sostanzialmente istituzionale. La ricorrenza offre comunque il destro per bussare alla porta di una delle comunità cinesi più numerose e meno raccontate d’Italia, che sta in Val Pellice, tra Barge e Bagnolo Piemonte (Cuneo). Niente a che vedere con Paolo Sarpi (bar, ristoranti e negozi all’ingrosso) e Prato (capannoni e negozi), le due Chinatown più famose del paese. A Bagnolo non c’è nemmeno un ristorante cinese: è fallito. Per le strade è Piemonte assoluto: i caffè, la merceria, il porticato, il piemontese come lingua principale. I cinesi sono tantissimi ma proverbialmente stanno per conto loro –chiusi, riservati come i locali-; si vedono soprattutto sui citofoni, dove Hu, Liu, Zhao e Lin si alternano ai Bunino, Chiappero e Balbo. Il primo ad arrivare qui dal distretto di Shangai fu il signor Deng, detto Franco, quindici anni fa. Professione scalpellino, cavatore della pietra di Luserna e di quarzite, uno di quei mestieri che gli italiani non vogliono più fare. Oggi gli scalpellini cinesi in Val Pellice sono diverse centinaia. Incontro Giada, raffinata sinologa novarese e titolare di un piccolo ufficio sulla piazza. Sembra l’ambasciatrice italiana in una cittadina sempre più orientale: si occupa di pratiche burocratiche, rinnovi del permesso di soggiorno, insegnamento dell’italiano ai cinesi, e di tutte quelle attività che possono avvicinare la comunità locale a quella migrante. A conti fatti, spiega, si tratta di una integrazione ben riuscita proprio perché basata sulla riservatezza: Piemonte e Cina, due mondi pacificamente separati, ma nello stesso posto. I più giovani, invece, sono un po’ diversi. Jian Yi, per tutti Gianni, ha venticinque anni e vive a Barge da dieci. L’identità è mescolata: non più solo cinese ma nemmeno completamente italiana. A differenza del babbo non fa lo scalpellino, anzi: credo di aver trovato l’unico cinese in Italia attualmente disoccupato. Con queste spese, l’IVA che si alza, l’instabilità politica -dice Jian Yi- facciamo fatica anche noi che siamo disposti ad orari massacranti e ad investire nel paese. Anche per tutto quello che è fuori dal lavoro, Jian Yi ha una vita sovrapponibile a quella di un qualunque ragazzo piemontese: cerca una fidanzata (anche italiana va benissimo), il sabato sera va con gli amici a Milano o Torino perché c’è più vita, ascolta la musica delle radio commerciali (non ho approfondito quali, temo possa amare i Modà). Insomma: l’ansia per il futuro è condivisa e la Cina è davvero vicina, a parte la festa nazionale che qui non si festeggia. La barca è la stessa, a prescindere dal taglio degli occhi. Lascio Bagnolo all’ora dell’aperitivo, le strade deserte e sullo sfondo le cave di pietra: un po’ Piemonte, un po’ Cina, molto Fratelli Coen.

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Sabato pomeriggio per outlet e crisi di governo

 

DOMENICA 29 SETTEMBRE

Ieri pomeriggio sono capitato in un grande outlet piemontese, proprio nei minuti in cui si configurava la nuova temutissima crisi di governo, generata dalle dimissioni dei ministri Pdl. L’outlet è ormai un punto di riferimento consolidato nel fine settimana degli italiani, non solo in termini di presenze: migliaia, come sempre. Ci si va per gli sconti ma anche e soprattutto per incontrarsi, per lo struscio, per vedere la gente che passa o per assaggiare un cono tre, quattro o cinque gusti, spesso annegato di mirabolanti praline colorate. All’outlet si concentrano insomma molte attività destinate precedentemente a borghi e centri storici, almeno fino all’avvento dei primi centri commerciali. Gli outlet di seconda generazione –proprio come quello in cui mi trovavo- hanno goduto del boom dei primissimi per correggere in corsa alcune imperfezioni architettoniche: i piccoli borghi in miniatura sono provvisti di ogni tipo di esercizio –che rende inutile passare perfino dal pasticciere o da quello che vende la moka-; somigliano sempre di più alle città vere (e circostanti) con il vantaggio che si parcheggia più facilmente; fanno dei tentativi di sfuggire al concetto di “non luogo”, e provano a riempirsi di concerti ed altre attività (qui ci sono un reperto archeologico e una sala civica per le mostre), che potrebbero giustificare, a prescindere, una visita. Così, l’outlet è riuscito a trasferire in uno spazio posticcio e di proprietà privata molte delle attività che facevano parte della vita sociale, rendendole puramente commerciali e isolandole da quella bella contaminazione che investe invece gli spazi comunitari (all’outlet i bambini non giocano a pallone, all’outlet uno che non consuma si sente a disagio, all’outlet ci devi andare per forza e comunque in auto). A me dell’outlet colpisce sempre il timing, che è una quasi città che ad un certa ora chiude, un po’ come succedeva per la giornata dei bambini dopo Carosello: finito, tutti a dormire. Mi colpisce sempre che ci sia un tipo che ha le chiavi di questa quasi città, e che ad una certa ora la chiude per davvero. Mentre la radio annunciava la crisi di governo ero dentro un negozio di occhiali, affollatissimo come tutti gli altri (perfino quello che vende maglioni e mazze da polo). La gente ha teso l’orecchio, qualcuno ha fatto una smorfia, altri hanno sbuffato, qualcuno ha continuato ad occuparsi dello sconto sulle montature che coincide con gli anni di età, un ragazzino ha sperato che arrivasse il prossimo pezzo dei Modà, che piace tanto alla fidanzata. Per fortuna la canzone successiva era di un altro, brutta, ma di un altro. Quell’annuncio è suonato come l’ennesima intrusione parlata in un flusso indistinguibile di brutte canzoni. Cosi, tornando verso l’auto e sperando di non perdere il resto del pomeriggio nell’ingorgo verso l’uscita, mi sono affacciato alla porta della Sala Civica. Come per avere una riscossa simbolica, una sicura adesione morale dalla più alta istituzione presente all’outlet (un vigile? Un dipendente comunale mobbizzato? Un netturbino stanco?). Mi ha accolto la guardia giurata, privata anche lei. Mi ha detto che la sala civica era chiusa e che di mostre, qui all’outlet, nelle prossime settimane non ne sono previste. Mi sono quasi scusato per il pensiero, e sono tornato subito all’Italia, confusa come il traffico di gente in questo strano posto, in un tranquillo sabato pomeriggio di inizio autunno.

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Philippe Daverio e lo spread della cultura

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Innovation Festival prende Bolzano e per tre giorni la asfalta di start up, aziende green e sguardi sul futuro. In piazza Walther, nel cuore della città, c’è l’Innovation Arena. Uno stand diffuso di cose strane e bellissime tipo: droni per la ricerca dei dispersi in montagna; rivenditore di confettura di gogi(bacca cinese acidissima che cresce bene anche in Alto Adige mescolata con l’albicocca); il gatto delle nevi elettrico (mica male); la seggiovia sostenibile; il trattore autoguidante per pendii davvero pendenti con manovra a trecentossessanta gradi per potatura vigna e riconoscimento vini (in un colpo solo una botta al caporalato e ai food show televisivi); la piattaforma aerea (elettrica) per raccolta della frutta senza pilota (colpo di grazia al caporalato, botta forte ad Alitalia e alle sette sorelle). Andiamo in onda da un piccolo chalet prequisito ad un gruppo di bambini, tra i costumi di Bobby, la simpatica scimmietta bilingue che diverte grandi e piccini. Incontro Philippe Daverio, elegante abito cremisi, sigaro donato da una fan pronto all’accensione, sorriso apertissimo. Dice che la vera salvezza di un pezzo dell’economia e della cultura passa dall’artigianato. Dalla gente che sa usare le mani. E che i giovani, designer in testa, non devono smettere di pensare a prodotti che proiettino nel futuro, che siano il primo segno tangibile di qualcosa che deve ancora arrivare: una anticipazione dirompente ma serena, che costi poco, e che sia fortemente evocativa. Molto diversa da quel “sogno”, un po’ vacuo, che senti circolare nelle parodie di certi imprenditori a cavallo tra lusso e tamarria. Quando gli chiedo quale sarebbe il suo primo provvedimento da ministro della cultura, risponde con una notazione economica inappuntabile: salvare il Mezzogiorno con i soldi dell’Europa. Riportare in Campania, Puglia e Sicilia una ideale “culla identitaria” del continente, abbandonando attività improduttive ed inquinanti. I soldi –inzigato, risponde- devono arrivare da Bruxelles. Fondi europei: dato 100, la Germania riceve indietro 120. Dato 100, l’Italia recupera poco più di 20. Di economia non ci capisco un acca, ma mi sembra uno spread anche questo, e senza campanilismi meriterebbe forse una revisione. Ce lo chiede Pompei, ma anche molte start-up italiane che lentamente cominciano a migrare verso altri paesi europei.

Ps. Dicono che il cocktail dell’anno sia nato qui, a Bolzano. Si chiama “Hugo” e va di moda anche ad Ibiza (notizia non verificata). Succo di sambuco, menta, prosecco: un po’ mojito, un po’ anche no. Per eventuali reclami -possibilmente solo sul cocktail- rivolgersi senza indugio alla sezione commenti.

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Car2Go e brevi considerazioni sull’economia mondiale

Si chiama Car2go ed è una cosa che somiglia al futuro: più che car sharing, l’auto usa e getta. Mezz’ora, un’ora se c’è traffico, la trovi per strada, la lasci senza patema dove c’è posto, costa meno di un taxi e inquina il giusto -per via dello spegnimento al semaforo-, non ti ci affezioni, non devi portarla a lavare il sabato, eccetera eccetera. Si calcola che per ogni macchinetta del Car2Go –400, tutte belle accessoriate, pulite, e collegate con la centrale 24/h- otto cittadini si disferanno della propria: numeri da vera rivoluzione green. Il servizio è partito a Milano ed è già di gran moda: sedicimila persone, in testa il sindaco Pisapia, hanno già la loro tesserina, e presto il servizio sbarcherà in altre città italiane. In diretta dalla macchinetta abbiamo raccontato il ritorno a casa di Marco, simpaticissimo manager che si occupa di turismo e meeting. Prima di lui si erano seduti una signora dal profumo inebriante ma tosto, già orfana della settimana della moda; un signore di cui ho scordato il nome, dato che si parlava di Inter e dei nuovi acquirenti indonesiani; uno che non capiva come innescare la macchinetta ma poi ci siamo riusciti e quando ci siamo riusciti ha acceso su un’altra radio e volevo staccargli la chiave dal cruscotto; tutta gente diversa ma con esigenze pratiche simili. Poi ho parlato con Paolo Lanzoni, che si occupa di pubbliche relazioni per Car2Go. Mi raccontava che il servizio funziona già in 22 città europee, e che l’Italia è lenta per via della burocrazia. Anche se sono tutti d’accordo, tutti entusiasti, il fiume di carte obbliga per mesi e mesi e spesso frena entusiasmo e idee.  Un refrain già sentito, molto buon senso, direi oltre la destra e la sinistra. Per esempio, dice Paolo, non possiamo portare le macchinette a Linate perché per cento metri risulta nel comune di Segrate ed occorrono altri permessi. Ci si attrezzerà presto, intanto possono arrivarci gli autobus dal parcheggio più vicino,  però son cose che in Europa fanno sorridere. Misteri. Lasciando l’auto, sono rapito da una sensazione un po’ postfordista. Sembra che il padrone finirà per smetterla di tenerci buoni vendendoci delle cose, ma comincerà ad affittarcele. Forse Marx non sarebbe d’accordo, ma a me sembra già un piccolo passo avanti. 

Prove d’orchestra con Mario Beretta

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Succede, al termine della lunghissima giornata passata al Giglio per raccontare il drizzamento del Concordia, di prendere l’unico traghetto garantito per Porto Santo Stefano (sveglia alle 4.30) e di dover lavorare a Monte Sole (Bologna), nel pomeriggio. La strada passa da Siena e quando ti accorgi di essere sveglio da quasi trenta ore consecutive e di cominciare a vedere dritte tutte le curve, capisci di avere urgente bisogno di riposo. Faccio tappa al centro sportivo del Siena Calcio, allenato da Mario Beretta, un vecchio amico, un uomo raffinato e lontanissimo dall’idea –divismo e lontananza- che avvolge il mondo del pallone.

Capita di incontrarlo a mostre d’arte o in coda a presentazioni di libri, tra le birrerie del suo vecchio quartiere –Via Padova e dintorni, l’arteria multietnica di Milano che scomodò paragoni africani al Cavaliere in visita elettorale- o sopra una bici da corsa, preparando una nuova avventura dopo aver costretto amici e collaboratori a sfidare il cammino di Santiago, la Via Francigena e l’intero corso del Po, dal Monviso a Comacchio. E poi qui, nella veste più congeniale, il maestro di calcio, per l’occasione in sgargiante tenuta rossa.

Non avevo mai assistito ad un allenamento di una squadra professionistica –il Siena gioca stabilmente da anni tra serie A e serie B- e devo dire che somiglia molto più ad una prova d’orchestra che non ad una esibizione muscolare. Il Maestro dispone l’orchestra nello stadio vuoto, si provano schemi e movimenti con rigore assoluto, si simula una partita, si chiede ai singoli interpreti (sanno benissimo cosa fare, come muoversi) una aderenza assoluta al progetto. 

L’allenatore ha grinta, entusiasmo, chiama tutti per nome, si incazza, ride, perdona, spiega come entrare ed uscire dalle azioni, invita a bere un goccio d’acqua dopo una serie di scatti, ordina di alzare il ritmo, di abbassarlo, di fare sempre gol -anche adesso, che non conta nulla-, e chissà dentro cosa pensa davvero. 

I giocatori obbediscono, non sbuffano, corrono, faticano e ridono (dallo spogliatoio senti canti, scherzi), chiamano “mister” Beretta e i suoi collaboratori, per rispetto; cercano sempre l’allenatore per un consiglio, poi fanno tiri formidabili e altri bruttissimi, fanno giochetti col pallone indescrivibili, si chiamano sempre per soprannome: sono giovani e ricchi professionisti, educatissimi, eccellenze, aziende in movimento e se sono tristi sanno nasconderlo benissimo. I portieri dall’altra parte del campo volano con agilità impressionante da un palo all’altro e appena si annoiano chiedono all’allenatore altri tiri, altre giocate, altri tuffi. 

Il divismo non passa da questo campo. Fuori non c’è nessuno ad aspettare, nel calcio di provincia succede spesso. Qui, come in un teatro, l’orchestra prova lo spartito con cura e dedizione. La giornata passa bene e certo, arriverà la domenica a raccontare storie sempre diverse: vittorie, sconfitte, pareggi che possono determinare l’umore di una settimana. Intanto, però, questa roba somiglia molto alla felicità. 

(foto del furgoncino della squadra, mi sono sbracato da quelle parti prima dell’allenamento)